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Insieme a te non voto più

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Io l’intervento di Veltroni non l’ho sentito. E, per 48 ore, neppure ho letto nessuna delle note politiche e sociologiche che, sobriamente, lo definivano il discorso di un leader naturale – di più: del leader che il paese attendeva – di meglio: dell’Imperatore Ideale della Sinistra che verrà. Insomma, io per due giorni ho involontariamente praticato la riduzione del danno e arginato le sofferenze. Il fatto è che, mentre si svolgeva l’ultimo congresso del partito che mi sono fin qui ostinata a votare, io ero impegnata a farmi piantare. E questa sarebbe un’altra storia, non fosse che il privato è politico, che tra vent’anni avremo tutti dei nipoti, e che è un’altra storia fino a un certo punto.
Tra vent’anni, districandosi tra un dibattito sul ricambio generazionale e l’altro, i nipoti ci chiederanno dove eravamo nei momenti seminali della nostra giovinezza. Quando è morto Kurt Cobain. Quando è finito Sex and the city. Quando si è svolto l’ultimo congresso dell’ultimo partito. Tra vent’anni, quando le guardie svizzere veglieranno sulla residenza della Binetti al Quirinale, i nipoti verranno a batterci sulla spalla. Non so voi, ma io in quel momento starò probabilmente scrivendo un editoriale entusiasta – abbiamo fatto un sacco di progressi, abbiamo una donna presidente, più cilicio per tutte è uno slogan libertario, aveva ragione lei quando diceva che solo con metodi estremi si capisce cosa sia la fatica del vivere e roba così – e sussulterò impreparata, poi l’inconscio farà quel che deve fare e scivolerò in qualche lapsus genere: “Ero distratta, avevo una crisi sentimentale con Gavino Angius”. Prima che possa rettificare, mio nipote sarà già al telefono con la pagina culturale del Corriere e l’incolpevole Angius si troverà impelagato in tutt’una serie di pezzi revisionisti. E tutto perché non ho il senso delle priorità.
Lo sapevo, che era l’ultimo congresso. E che avremmo fatto il Partito democratico, e che dovevo convincermi di esserne entusiasta, perché sono di Bologna e facevo merenda con piadina e disciplina di partito, e d’altra parte li voto perché prendano delle decisioni al posto mio, e se hanno deciso che bisogna fondersi con Rutelli avranno le loro buone ragioni, cosa ne posso sapere io? Sono solo una femmina, e una volta che un funzionario di partito mi ha detto che le correnti sono un’invenzione dei retroscenisti e in un partito si va tutti d’accordo e D’Alema e Fassino si vogliono tanto bene gli ho quasi creduto. Insomma, lo sapevo che era un evento storico, e che non ci sarei stata. Perché ero in piena fase inizio-di-grande-storia-d’amore, perdipiù a distanza, e quella era la settimana in cui lui sarebbe venuto due giorni a Roma e poi io sarei andata due giorni a Milano, e quindi spiacente, quando i nipoti avessero avuto domande avrei detto loro che mentre a Firenze si chiudeva bottega io ero a Milano a pomiciare come una liceale. Ora, c’è solo un vantaggio nello scendere a prendere le sigarette, risalire e trovare un biglietto con scritto “Mi dispiace. Non ce la faccio. Riparto”, e quel vantaggio non è (solo) che in Sex and the city succedeva esattamente la stessa cosa e quindi una ventina di puntate dopo è garantito il lieto fine (con un altro, naturalmente). Il vantaggio è che a quel punto, se sei una donna con senso della storia (non intesa come “relazione deperibile” ma come “quella che si studia a scuola”), puoi cambiare il biglietto per Milano in uno per Firenze e andare a festeggiare il compleanno di D’Alema nonché l’ultima volta in cui Fassino sarà segretario di una qualunque aggregazione politica. Invece, aggravando la mia posizione di fronte ai nipoti, io mi sono chiusa in casa a frignare. Quando ho smesso, era troppo tardi. Le dirette televisive erano finite, i blog rigurgitavano entusiasmo (probabilmente ancora grati per quell’ora di wi-fi gratuita a Villa Borghese), le cronache dei giornali erano insoddisfacenti: sì, dicevano che WV era stato il più applaudito, ma lo dicevano anche di D’Alema, anche della Finocchiaro, c’era un più applaudito nuovo ogni quarto d’ora. Non restava che YouTube. Niente: solo il Walter di Corrado Guzzanti. Allora il sito di NessunoTv. Niente: in rifacimento. Allora quello dei Ds, sezione video. Niente: solo i discorsi di Mussi e Angius. Ora, avrei capito D’Alema, che dopo il dovere avrei visto con un certo piacere; avrei capito la Finocchiaro; ma: Angius? Io tra vent’anni dovrò dire ai miei nipoti che no, spiacente, il Barack Obama che questo paese si meritava non lo sentii, però se state buoni vi racconto di Angius? Suvvia, siamo seri.
Alla fine, del discorso di WV ho letto solo le frasette riportate dai cronisti politici. Sono di sinistra se questo, se quello, se ai bambini che muoiono di fame do un pezzo della mia brioche. Eccola lì: la cadenza. Mi sono ricordata che una delle prime cose di cui avevo discusso con l’uomo che mi piantò dopo avermi fatto mancare il congresso era il discorso di Barack Obama alla convention democratica del 2004. Lui era tutto rapito dalla cadenza: crediamo in dio negli stati democratici e non vogliamo agenti federali che ci controllino le biblioteche negli stati repubblicani, facciamo giocare a baseball i bambini negli stati democratici e abbiamo amici gay negli stati repubblicani, e insomma siamo tutti una grande famiglia unita dai valori e pronta a privarsi di un corno della brioche allorché in gita in Malawi. Soprattutto: abbiamo ritmo. Abbiamo imparato a parlare dai grandi predicatori. Sappiamo benissimo come dire, non importa cosa. All’epoca mi limitai ad alzare un sopracciglio: “Allora tanto valeva candidare alla presidenza James Brown”. Adesso, penso che avrei dovuto capire per tempo, lasciare all’uomo che si faceva infinocchiare dalla cadenza un biglietto con scritto “Mi dispiace, non ce la faccio, sono partita per il congresso e comunque voto Hillary”, e andare a controllare la stendingovescion di persona. Non perché non mi fidi delle cronache: perché sono certa che, dopo, avrei improvvisamente capito di cosa parla la Binetti quando parla della fatica di vivere.


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